Dirigenza e Leadership: autorità o autorevolezza
“Autorita.gif” La mia lunga esperienza di dirigente pubblico (1) mi autorizza ad alcune riflessioni sulla figura del “dirigente”, quale responsabile di strutture con la gestione di risorse umane nonché destinatarie di obiettivi e risultati.
Nel corso di quasi 30 anni trascorsi in tale attività, con crescente successo gestionale, e con la volontà di approfondire tecniche e metodologie, ho sperimentato l’importanza di alcune competenze che spesso nella pratica della pubblica amministrazione, sono di fatto scarsamente considerate.
Mi soffermo su una “caratteristica” (anche se so benissimo che non è la sola che deve avere un bravo manager) che mi ha consentito di svolgere sempre e con successo il mio incarico: la autorevolezza.[more]
Per capire il contenuto dell’autorevolezza (come fattore di successo nella guida di risorse umane) ed il modo per conseguirla all’interno del gruppo di lavoro (e anche nell’ambiente circostante), è necessario preliminarmente distinguerla dall’”autorità”, con riguardo alle rispettive origini.
Infatti l’autorità (in particolare nel settore del pubblico) viene dall’alto; in forza di leggi, norme e regolamenti viene conferita ad un soggetto che, però, può esercitarla con o senza autorevolezza.
Diversamente l’autorevolezza; la persona, che può avere anche una autorità formale, assume autorevolezza nelle proprie azioni e nelle indicazioni, perché dotata di un bagaglio positivo, conquistatosi nel corso della sua vita e che ella stessa alimenta costantemente con comportamenti ed azioni coerenti, sia interni che esterni all’organizzazione. E per questo mentre l’autorità è corrispondente al livello gerarchico ricoperto, l’autorevolezza non riceve alcuna investitura formale ma è riconosciuta, in modo spontaneo, dai collaboratori e dalle altre persone che vengono in rapporto con il dirigente, a prescindere dal grado ricoperto nell’organizzazione.
Contribuiscono alla formazione dell’autorevolezza sia fattori originari, che circondano la persona di un alone positivo già prima di assumere l’incarico, sia fattori concomitanti di consolidamento e accrescimento.
In base alla mia esperienza provo a fare una elencazione, anche se so che non può essere esauriente e tanto meno esaustiva in quanto un dirigente responsabile, deve essere sempre proteso allo sviluppo di tutte quelle altre “competenze” tipiche che, all’occorrenza (2), sovvengono in suo aiuto e nell’interesse generale.
Comincio con il sottolineare l’importanza delle modalità di assunzione dell’incarico formale (il conferimento dell’autorità). Questo non può avvenire per fattori estranei a principi di uguaglianza e di meritocrazia anche se, quest’ultima, è fondata su criteri selettivi di ordine meramente tecnico (prescindendo, in questa sede, sia dalla eventuale legittimità dell’atto che dagli obiettivi gestionali). Questo perché la nomina a “dirigente”, priva del senso comune di giustizia, viene subito percepito come elemento negativo nella prospettiva dell’autorevolezza.
Tenendo conto della mia esperienza, faccio una elencazione di comportamenti, stati e azioni idonei a circondare il “dirigente” di un “alone” positivo, conferendole autorevolezza:
– Conoscenza, per linee generali, della materia oggetto dell’attività dell’organizzazione;
– Correttezza formale e sostanziale nella scrupolosa osservanza, in prima persona, delle regole che presidiano l’organizzazione e di cui si pretende, giustamente, l’osservanza dai collaboratori;
– Utilizzo, solo in casi molto eccezionali, dell’autorità; evitando la minaccia del suo esercizio con misure coercitive o sanzionatorie (ciò non significa che non possa verificarsi il caso in cui ciò sia necessario con il pervenire, anche, a provvedimenti sanzionatori);
– Evitare di appellarsi, per far valere decisioni o in via di principio, alla propria autorità;
– Avere e coltivare capacità di ascolto costante, interessata e sostanziale;
– Capacità di riconoscere, onestamente e senza timore di perdere autorità, i propri errori;
– Comportamenti sempre leali e irreprensibili;
– Onestà intellettuale e chiarezza nei confronti dei collaboratori e delle persone esterne;
– Impegno personale nel praticare sempre la giustizia (anche se si tratta di un concetto molto complesso(3)), nei confronti di tutti i soggetti con cui si viene in contatto (collaboratori e non);
– Abitudine a redarguire, quando assolutamente necessario, pacatamente ed in privato; ma anche e più spesso a dire grazie ed elogiare per l’impegno e le capacità dimostrate;
– Capacità a non inalberarsi in presenza di errori e tensioni interpersonali;
– Predisposizione a chiedere opinioni, giudizi, suggerimenti, valorizzandoli quando opportuno e necessario per l’organizzazione;
– Scrupoloso rispetto delle professionalità dei collaboratori; in particolare riconoscerne le capacità apprezzandole apertamente e, senza invidia, promuovendone lo sviluppo.
In sintesi, avere la capacità di guadagnarsi la “stima” dei collaboratori (altri dirigenti e non dirigenti).
Evidentemente, alcuni atteggiamenti devono assumere, di volta in volta, la conformazione più idonea alla situazione del momento, ma ricordandosi sempre di preservare la dignità e le legittime aspirazioni della persona umana dell’interlocutore; con Daniele Goleman(4), possiamo dire la necessità di coltivare una “intelligenza emotiva”.
Devo aggiungere che, però, non è possibile improvvisare queste e le altre “competenze” che fanno del “dirigente” un bravo manager.
Infatti, la selezione – specie nel pubblico – con metodi rigorosamente oggettivi e idonea a privilegiare oltre alle competenze di settore anche specifiche abilità, dovrebbe essere seguita da allenamento sul campo e dalla formazione nelle tecniche di sviluppo della leadership; questo, peraltro, è quanto avviene nei nostri vicini francesi, ove la Scuola Nazione d’Amministrazione (éna) è capace di formare dirigenti (anche per la politica) d’alto rango!
Non è possibile improvvisare i “dirigenti”. Si rivela ancora peggiore la prassi che va affermandosi nella nostra pubblica amministrazione, ove, nella maggior parte dei casi, la selezione e nomina è affidata, senza criteri e regole, ai dirigenti di vertici, a loro volta, privi di qualsiasi cultura manageriale ed esperienza dirigenziale e nominati con criteri altrettanto arbitrari.
Le persone prive di capacità dirigenziali (segnatamente autorevolezza) si appellano costantemente alla loro “autorità” (qui comando io!), con uno sconquasso generale.
NOTE
(1)Il mio primo lavoro, da giovane appena laureato, è stato quello di Segretario Comunale in comuni di medie dimensioni (allora definiti di 3^ classe). In tale funzione, dal 1975 al 1977 ho assunto vari incarichi con gestione di risorse umane; nonostante le soddisfazioni ottenute e gli ottimi rapporti instaurarti, sia con l’organo politico di riferimento (Sindaco – Giunta) che con i collaboratori/dipendenti dal Comune, ora riconosco la mia immaturità di allora. Successivamente, dopo 8 anni di esperienza, quale semplice funzionario presso gli uffici periferici dell’allora Ministero delle Finanze, dal 1985, quale dirigente pubblico vincitore di concorso, ho sempre diretto Uffici di medie e rilevanti dimensioni (quale l’Ufficio IVA di Milano).
(2)In questo settore la manualistica di aiuto è abbondante.
(3)Vedasi l’ottimo saggio di Amartya Sen, L’idea di giustizia; Mondadori, maggio 2010.
(4)Lavorare con intelligenza emotiva – Come inventare un nuovo rapporto con il lavoro; BUR Gaggi, 7° ediz. Giugno 2003.
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